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Comune di Lanuvio

Il culto di Giunone Sospita

Properzio (IV, 8, 3-14)
Qui fu recata la mia Cinzia (…) Lanuvio è, da tempo antico, sotto la tutela di un annoso drago: qui, dove non è certo sciupato l’indugio di un’ora così fuori dal comune, dove la sacra discesa sprofonda in una bocca tenebrosa, in cui penetra una vergine in onore del serpente digiuno, quando esige l’annuo pasto e lancia sibili torcendosi dal fondo del terreno. Le fanciulle mandate giù per tali riti sono pallide nell’affidare  temerariamente la mano alla bocca del serpente. Questo afferra  i cibi che la vergine gli accosta, e nelle palme della vergine trema il canestro. Se sono state caste, ritornano tra le braccia dei genitori e i contadini gridano: l’anno sarà fertile. 
 
Eliano (XI, 16). Traduzione di Francesco Maspero, Milano 1998 (pp. 660-663)
A Lavinio* vi è un bosco sacro, grande e folto, e nei pressi sorge un tempio dedicato a Era protettrice dell’Argolide. Nel bosco vi è una tana vasta e profonda, dove dimora un mostruoso serpente. In determinati giorni dell’anno entrano nel bosco delle giovinette ancora vergini, che recano nelle mani una focaccia e hanno gli occhi bendati. Le conduce direttamente alla tana di quel mostro uno spirito divino; esse avanzano passo passo, senza inciampare, come se avessero gli occhi scoperti. Se sono veramente illibate, il serpente accetta le loro offerte di cibo, poiché le ritiene pure e adatte a un animale prediletto dagli dèi. Altrimenti i cibi restano intatti, perché esso conosce in anticipo e indovina la loro impurità. La focaccia della giovinetta deflorata viene allora sminuzzata dalle formiche per renderne facile il  trasporto; successivamente le formiche la portano fuori del bosco e ripuliscono così il luogo. Gli abitanti, venuti a conoscenza dell’accaduto, indagano sulle giovinette che hanno preso parte alla cerimonia e quella che ha disonorato la sua verginità viene punita secondo la legge.  (* Nella versione di Eliano si accenna proprio a Lavinio e non a Lanuvio).
 
Pseudo Prospero. Traduzione di Oreste Raggi, Roma 1879, (pp. 177-178)
Presso la  città di Roma fu una spelonca, nella quale un dragone di grandezza meravigliosa, formato meccanicamente, portando in bocca una spada, cogli occhi scintillanti per le gemme, spaventevole e terribile appariva. A questo, vergini onorate di fiori, consacrate ogni anno, in tal maniera gli si davano in sacrificio, che non consapevoli della cosa, portando doni, toccando un gradino della scala da cui con tutta quell’arte del diavolo pendeva il meccanismo, il colpo della spada si scaricava, onde si spargesse il sangue innocente. E questo fu in tal modo distrutto da un monaco ben conosciuto pel suo merito da Stilicone: tastando questo monaco col bastone in mano ciascun gradino, come toccando quello si accorse della frode diabolica, lo saltò; e scendendo tagliò in pezzi il dragone, mostrando ivi numi che si fanno colle mani.