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Comune di Lanuvio

Marianna Dionigi Candidi – paesaggista e viaggiatrice

Marianna Candidi nacque a Roma il 3 febbr. 1756 da Giuseppe, medico dotato di notevole cultura umanistica, e da Maddalena Scilla,.

Fin da giovanissima, la C. coltivò vari interessi: studiò musica (abile nel contrappunto, suonava arpa e clavicembalo; godeva dell’ammirazione e delle frequenti visite di Anfossi, Paisiello, Cimarosa); si dedicò allo studio delle lingue latira e greca e alla lettura dei classici; intraprese ricerche archeologiche (suo istruttore in greco e latino fu Cunich); soprattutto, si avviò alla pittura di paesaggio, sotto la guida di Carlo Labruzzi. Imparò anche ottimamente le lingue inglese e francese. Prima dello scoppio rivoluzionario fu invitata alla corte francese per svolgervi attività di istitutrice di una delle principesse reali, ma non accettò per non lasciare la famiglia. A soli quindici anni aveva infatti sposato Domenico Dionigi, originario di una famiglia nobile di Ferrara da più generazioni trapiantata a Roma, il quale si occupava di diritto e di lettere; ne rimase vedova nel 1801.

Soprattutto dal periodo rivoluzionario in poi, il salotto della C., al n. 310 di via del Corso in Roma, divenne uno dei punti d’incontro tra la cultura “romana” e gli intellettuali italiani e stranieri: tra gli altri lo frequentarono V. Monti, Erskine, J.-B. Seroux d’Agincourt, Cunich, Fea, Poniatowsky, Valadier, Tambroni, Cancellieri, Milizia, Canova, G. Capogrossi Guarna, G. G. de Rossi, Leopardi.

Dato l’interesse della C. per l’archeologia, fra gli ospiti più assidui era E. Q. Visconti, che la volle presente all’apertura del sepolcro degli Scipioni (1780). In questa occasione la C. manifestò la propria disapprovazione per la dispersione del materiale, cercando di impedire il trasferimento al Museo Pio Clementino del sarcofago di Scipione Barbato, e ottenendo almeno che al suo posto fosse conservata una riproduzione. Altri ospiti illustri del salotto furono P.-L. Courier, ufficiale del genio dell’esercito francese durante la prima occupazione di Roma del 1798 (con questo ufficiale amante più degli studi e dell’arte che della carriera militare vi fu uno scambio di lettere abbastanza nutrito: ne restano alcune scritte dal Courier stesso dal 1806 al 1809) e il giovane P. B. Shelley (1819).

La C. coltivò rapporti con gli studiosi del suo tempo anche come membro di numerose accademie: anzitutto di quella romana di S. Luca (fu nominata “accademica di merito” come “egregia pittrice paesista a tempera” nella seduta del 19 apr. 1808); inoltre della Filarmonica, della Tiberina, dell’Arcadia e, fuori Roma, delle Accademie di Bologna, Perugia (di questa era direttore il suo maestro Labruzzi), Pisa, Pistoia, Livorno, Charlestown (South Carolina). L’ammissione all’Accademia di S. Luca era piuttosto rara per i pittori di paesaggio (definita “arte secondaria” nell’art. 2 dello statuto sociale). La C. e prima di lei (1796) il Labruzzi vi furono accolti perché apparivano fedeli ai canoni accademici della figura, dell’architettura, della prospettiva.

Dell’attività di pittrice svolta dalla C. (su tale attività peraltro non mancarono dicerie e pettegolezzi, volte a metterne in dubbio la paternità) sono testimonianza da un lato varie sue opere conservate presso gli eredi o presso collezioni pubbliche e private, dall’altro il suo libro teorico Precetti elementari sulla pittura de’ paesi, terminato, presentato all’Accademia di S. Luca e da essa approvato nel 1808, ma stampato a Roma solo nel 1816. Testimonianza sia dell’attività artistica sia dell’interesse per l’archeologia è la raccolta di incisioni che, con un testo impostato sotto forma di lettere ad un amico, fu pubblicata a Roma nell’anno 1809 e nuovamente riedita, nel 1812, Sotto il titolo di Viaggio compiutoin alcune città del Lazio che diconsi fondate dal re Saturno.

 
I quadri della C. sono eseguiti quasi tutti a tempera, con una particolare tecnica che ricorda l’aspetto dell’eneausto nella pittura antica, in accordo con il gusto archeologico proprio dell’epoca. Oltre ad alcune copie da P. Hackert, da Salvator Rosa, dal Poussin, dal Lorenese, è da ricordare dapprima una serie di opere di dimensioni più ridotte: Paesaggio con due tronchi d’albero e due cacciatori (1790, proprietà Frediani-Dionigi); Veduta campestre (1794, caffè Greco a Roma); L’artista che disegna in campagna un antico portale (proprietà Frediani-Dionigi); Autoritratto a pastello (proprietà Dionigi-Lazzarini); e soprattutto una veduta della Campagna romana (Galleria nazionale d’arte moderna a Roma), in cui alberi e cespugli in primo piano fanno da quinta allo sfondo che si allontana per successive gradazioni atmosferiche, secondo lo schema preferito dal maestro secentesco Claudio Lorenese. Meritano anche citazione due tempere su tela conservate pure nella Galleria nazionale d’arte moderna (Paesaggio raffigurante l’Aniene nel pressi di Tivoli, 1798; e altro Paesaggio) e tre altre grandi tele della collezione romana Dionigi-Lazzarini (Mulino di Claudio; un’altra copia eseguita per l’Accademia di S. Luca è andata perduta; Riposo nella fuga in Egitto, 1815; Mosè salvato dalle acque). Anche questi ultimi tre sono dei veri e propri paesaggi (nei soggetti biblici le figure, peraltro molto piccole e sommariamente rese, della storia sacra sono inserite semplicemente per “nobilitare” il genere): nitidezza del dettaglio, diffusa luminosità, “lucidezza delle arie”, “trasparenza delle acque” (secondo le espressioni della stessa C. nei Precetti) caratterizzano queste opere, che però manifestano soprattutto un interesse squisitamente “neoclassico” per l’armonia della composizione, in una visione paesistica garbata e diligente.

Il gusto, appunto, neoclassico per l’estetica normativa si esprime nei Precetti: una delle pochissime trattazioni dedicate all’arte del paesaggio, una esplicita valorizzazione del “genere di pittura a paesi”, in un’epoca in cui il maggior interesse (anche negli scritti teorici) era senz’altro riservato alla pittura di figura. Come fondamento dell’opera paesistica, la C. indica il disegno (in questo vi è l’adeguamento ad un noto principio accademico, e l’influsso dell’opera di P. Hackert), con i relativi studi di prospettiva, orizzonte, punto di vista, ecc. Semplicità, buona distribuzione di chiaro-scuro, tinte fuse e armonizzate devono essere le caratteristiche principali dell’opera; sono citati ad esempio Poussin, Salvator Rosa, Tiziano, il Domenichino; viene indicato come modello per la gioventù il Lorenese. L’armonia della composizione va ricercata mediante la coerenza locale-soggetto, stagione-soggetto, la “distribuzione del lume”, la fusione della composizione “di prima intenzione” e di quella “ragionata”; la tendenza al sublime perfezionato dall'”assiduo studio del vero”, la ricerca del “bello per mezzo del paragone”. Alla fine dell’opera, la C. tiene a definirsi una “dilettante”, dedita prevalentemente alla casa e alla famiglia.

Il Viaggio riguarda le città di Ferentino, Anagni, Alatri, Atina, Arpino. In questo itinerario la C. affrontò fatiche notevoli malgrado la sua età già abbastanza avanzata, e, nell’intento di giungere ad una maggiore precisione nelle rilevazioni, si fece seguire da un architetto. Nelle “lettere” che accompagnano le incisioni, vi sono alcuni spunti interessanti: ad esempio quelli sulle tombe dell’Appia, sul luogo dove Coriolano incontrò la madre, sulle mura di Ferentino (confronto con quelle di Volterra; porta Sanguinaria), su Alatri (Erskine ne aveva raccomandato la visita alla C., che ne fece una minuta descrizione), sulla “villa di Cicerone” ad Arpino (la C. esita ad opporsi alla tradizione, sebbene non veda nulla di antico), su tombe e iscrizioni sfuggite ad altri archeologi e viaggiatori. Le incisioni rivelano da un lato minuziosa attenzione nella riproduzione di abitati, mura, porte (riproduzione che talvolta risponde al vero in maniera esatta, talvolta meno; quello che quasi sempre è alterato è il rapporto fra monumento e figura umana, la quale ultima è impicciolita: cosa del resto comune in diversi vedutisti e paesisti, non ultimo proprio il Labruzzi), in accordo con gli interessi e la preparazione di archeologa della C. (mura poligonali di Ferentino, porta Sanguinaria, lapide di Aulo Quintilio, mura e porte di Alatri, porta ad arco acuminato di Civita Vecchia di Arpino, ecc.), d’altro lato gusto per gli elementi naturalistici, boschi, alberi, che rivela la sua dipendenza dalla scuola di disegno dello Hackert e del Labruzzi (campagna intorno a Ferentino; veduta di Alatri fra monte, fiumi e alberi; vedute, sempre inserite in ampi panorami, di Arpino e di Atina). Caratteristica comune di tutte queste incisioni è la grande finezza di segno e di rapporti chiaroscurali.

La C. scrisse inoltre una storia dei suoi tempi, di cui però è andato perduto anche il manoscritto (cfr. Marcone). Trascorse i suoi ultimi anni in una villa di Civita Lavinia (oggi Lanuvio) già di proprietà della cognata Teresa Frediani. In questa villa (che esiste ancora e contiene la ricca collezione archeologica della C., mentre i disegni e quadri sono andati distrutti nell’ultima guerra) la C. aveva già soggiornato altre volte: in una di queste occasioni, nel 1798, era riuscita ad evitare che il comandante francese Baranger, in un’azione di rappresaglia, radesse al suolo la cittadina. A Civita Lavinia la C. morì il 10 giugno 1826.

La scomparsa della C. non passò sotto silenzio negli ambienti intellettuali; sue biografie di tanto in tanto comparvero fino alla fine del secolo scorso (di notevoli proporzioni quella del Marcone del 1896); mentre nel nostro secolo ella è stata qualche volta ricordata anche dalla stampa di informazione, magari come “prima fautrice delle moderne conquiste della donna” per la sua notevole attività culturale ed artistica, ai suoi tempi piuttosto inconsueta per il suo sesso. Una valutazione critica della sua opera di pittrice è stata avviata solo recentemente dal Martinelli, nel quadro delle sue ricerche sulla pittura di paesaggio a Roma nell’Ottocento: egli giudica la C. una delle più dotate rappresentanti del paesaggio storico-archeologico nel quadro del neoclassicismo romano.