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Comune di Lanuvio

Commodo – Imperatore romano

statua dell'imperatore CommodoLucio Aurelio Commodo, imperatore romano, nacque a Lanuvio, antica Lanuvium, il 21 agosto 160 e morì a Roma nel 192. Figlio di Faustina Minore e di Marco Aurelio, regnò dal 180 – 192 d.C.)
A Marco Aurelio successe lo stravagante figlio, Lucio Aurelio Commodo.
Egli aveva compiuto da pochi mesi diciannove anni, essendo nato il 21 agosto del 160. Se nelle fattezze somigliava al padre, Commodo era completamente diverso da Marco Aurelio nell’indole; fin da fanciullo aveva fornito prova dei suoi istinti malvagi ordinando che si gettasse nel forno un servo reo di avere riscaldato troppo l’acqua del suo bagno; di studi non aveva voluto saperne e si era dato con passione agli esercizi fisici; al salto, alla danza, ai giuochi e ai piaceri.
C’era anche lui a Vindobona quando morì Marco Aurelio; e assunto all’impero, pronunciò al campo alla presenza delle truppe l’elogio del padre, poi fece noto il suo proposito di tornare a Roma. Invano i suoi generali insistettero affinché la guerra, così bene iniziata, fosse condotta a termine: egli fu inesorabile e aderì sollecitamente alle proposte di pace che gli erano state fatte dai Marcomanni, dai Quadi e dai Buri.
Non a lui certamente si dovette se la pace fu conclusa a condizioni vantaggiose per i Romani, ma alla stanchezza del nemico che aveva subito dure sconfitte ed all’abilità dei suoi generali, cui il padre, morendo, lo aveva raccomandato. Erano fra questi i due Quintili, fratelli notissimi più per il loro valore e la concordia che regnava tra loro che per le grandi ricchezze; Salvio Giuliano, Claudio Pompejano, che aveva sposato Annia Lucilia, vedova di Lucio Vero, e il prefetto del pretorio Tarrutenio Paterno.
Nonostante l’opera di costoro i nemici s’impegnarono a restituire i disertori e i prigionieri; mentre i Marcomanni e i Quadi s’impegnarono a fornire truppe ausiliarie all’impero e a riunirsi soltanto una volta l’anno e sotto la sorveglianza di un centurione romano in un punto designato dalle autorità imperiali; i Buri accettarono di non risiedere o pascolare a meno di cinque miglia dal confine dacico.
Conclusa la pace, Commodo fece ritorno a Roma dove entrò trionfalmente. Con lui rinacquero le orge di sciagurata memoria neroniana o domiziana; e il potere cadde nelle mani di favoriti ingordi, fra cui sono degni di menzione il cubiculario Saotero e Figidio Perenne che alla morte di Marco Aurelio era stato dato come collega a Tarrutenio Paterno nella prefettura del pretorio.
Il rifiorire dei favoriti, i quali avevano l’interesse di accentrare nelle loro mani l’amministrazione dello stato e di abbassare l’autorità dell’ordine senatorio e dell’equestre, ruppe la concordia che gli Antonini avevano stabilito tra il principe e il Senato e portò come conseguenza una lotta tra i due ordini; inasprita del rifiorire degli avventurieri che si erano istallati alla corte; dunque una lotta che doveva naturalmente produrre congiure e persecuzioni.
La prima congiura di cui si abbia notizia sotto l’impero di Commodo fu capitanata da una sorella stessa del principe, Annia Lucilia. Fra i congiurati erano il marito Claudio Pompejano, Numidio Quadrato, che aveva in moglie un’altra figlia di Marco Aurelio di nome Annia Faustina, e il senatore Quinziano, genero ed amante di Lucilia.
L’incarico di sopprimere l’imperatore era stato dato a Quinziano che ne godeva l’intimità; ma il colpo fallì: prima di colpire, Quinziano mostrò l’arma al principe esclamando «te la manda il Senato ». Commodo schivò il colpo e, gridando aiuto ai suoi guardiani, riuscì a fare arrestare il senatore (183).
L’attentato ebbe un seguito di processi e di condanne: Lucilia fu relegata a Capri dove fu trucidata; Quinziano fu messo a morte; la medesima sorte toccò ad Unmidio Quadrato; Tarrutenio Paterno, a quanto pare, non aveva preso parte alla congiura, ma era detestato da Perenne che avrebbe voluto da solo avere il comando del pretorio.
In quel tempo fu assalito ed ucciso anche Saotero. Si sparse la voce che autore del delitto fosse Paterno e Commodo, senza dubbio aizzato da Perenne, lo esonerò dal comando dei pretoriani nominandolo senatore. Pochi giorni dopo però, accusato di aver cospirato contro il principe, fu arrestato e messo a morte. La stessa sorte subì Giuliano, comandante delle legioni della Germania.

Commodo non si curava degli interessi dell’impero: viveva nella reggia o nelle sue ville, in compagnia di numerose donnine, immerso nelle crapule e nelle orge, non commuovendosi alle sofferenze del popolo prodotte dalla carestia, dalla pestilenza e da un incendio che procurarono numerose vittime e gravi danni alla città.
Suoi divertimenti quotidiani erano i giochi, le corse sui cocchi, i combattimenti contro le belve e i gladiatori. Egli si produceva in pubblico come lottatore e si presentava nelle feste con il caduceo in mano, come Mercurio, o vestito alla foggia di Ercole con una pelle di leone sulle spalle e in mano una clava; quando prendeva parte ai giuochi gladiatori si faceva pagare dalla cassa degli spettacoli un milione di sesterzi. I senatori e i cavalieri assistevano agli spettacoli e temendo l’ira del principe inneggiavano a lui: «Gloria a Cesare, a Commodo-Ercole, Invincibile, Amazonio, sempre primo, sempre signore, Pio, Vittorioso».
Erano questi i titoli che l’imperatore si era dati e non i soli. Egli si faceva chiamare Felice Germanico Massimo, Sarmatico, Invitto, Superatore, Pacificatore del mondo, Nume trionfatore, Padre del Senato, Padre della Patria. Il palazzo per ordine suo, si chiamava commodiano, commodiano il Senato, così il popolo e il secolo, commodiano era l’esercito, commodiana la flotta. Roma prese il nome di Colonia commodiana.
Commodo assunse anche il titolo di Britannico per alcuni successi militari ottenuti in Britannia dalle legioni. Infatti, le guerre, seppure di lieve entità, non mancarono sotto il suo principato: i Romani dovettero sostenere lotte contro i Frisi in Germania, contro i Mauri in Africa, contro gli Ebrei e i Saraceni in Asia e contro bande numerose di ribelli capitanati da un disertore di nome Materno, il quale, sebbene sconfitto da Pescennio Sigro, passò dalla Gallia in Italia e marciò verso Roma, ma prima di arrivarci fu catturato ed ucciso.
Degna di nota più che le altre fu la guerra in Britannia, dove i barbari riuscirono a passare il vallum e, sorprese le truppe, ne fecero strage uccidendo anche il comandante. A vendicare l’onta fu mandato Ulpio Marcello, che non smentì la sua fama di prode generale e, sconfitti i nemici, li ricacciò oltre la linea di difesa.
Mentre l’imperatore viveva fra le sue meretrici e sempre impegnato nei divertimenti, covava l’ira nei petti dei sudditi. Ciascuno temeva per sé: i senatori, i cavalieri, i ricchi i cui beni facevano gola al principe e ai suoi malvagi ed ingordi favoriti. E tutti quelli che potevano perdere la vita o le sostanze desideravano la fine del tiranno. Questa venne dopo tredici anni di regno e fu dovuta ad una congiura di palazzo. Avvicinandosi la fine dell’anno 192, Commodo aveva annunziato che il primo giorno dell’anno prossimo, in cui solevano celebrarsi le feste di Giano, egli si sarebbe presentato al pubblico vestito da gladiatore e scortato da un drappello armato di gladiatori invece di pretoriani. Marcia, Leto ed Eletto osarono consigliarlo di non voler prostituire la sua dignità mettendo in esecuzione quel proposito e Commodo, adirato, li minacciò. Temendo essi che l’imperatore mantenesse le minacce, stabilirono di sopprimerlo. Nella notte del 31 dicembre diedero al principe delle vivande avvelenate e, poiché il veleno non produsse l’effetto desiderato, lo fecero strozzare dall’atleta Narcisso mentre faceva il bagno.
Così, in età di trentadue anni, detestato da tutti, moriva l’ultimo degli Antonini.